E TU, CE L’AVRESTI FATTA?

E TU, CE L'AVRESTI FATTA?

Alla vigilia di Natale del 1971, Juliane Koepcke stava volando con sua madre e altri novanta passeggeri quando un fulmine colpì l’aereo, provocando danni strutturali notevoli al Lockheed Electra. Juliane cadde dall’aereo squarciato nella giungla peruviana; aveva diciassette anni, indossava l’abito della cresima e scarpe bianche con il tacco alto. Miracolosamente riportò solo qualche taglio e una clavicola rotta. In seguito disse di aver sentito “un colpo molto violento”, poi iniziò a precipitare verso la giungla.

“Ricordo di aver pensato che gli alberi della giungla sotto di me assomigliassero a cavolfiori”, rammenta. Per chi conosce anche vagamente le regole di sopravvivenza, questa frase è illuminante. Lei non urlava, né era in preda al panico. Stava invece ammirando il mondo in cui si trovava. Stava assorbendolo in pieno, toccando con mano la sua nuova realtà, osservando l’ambiente circostante mentre stava cadendo. Straordinariamente fredda. […]

Una dozzina di passeggeri sopravvissero alla disintegrazione dell’aereo su cui si trovava Juliane, e il loro atteggiamento, e conseguentemente il comportamento e la sorte, furono del tutto diversi da quello di lei.

Juliane si svegliò da sola, nella giungla, ancora legata al proprio sedile. Non c’era alcuna traccia di sua madre, che era seduta accanto a lei sull’aereo. Trascorse la notte rannicchiata sotto il sedile, per evitare la pioggia. Il giorno seguente dedusse che nemmeno gli elicotteri e gli aerei che poteva sentire sarebbero stati in grado di trovarla, vista la fitta copertura di vegetazione della giungla: avrebbe dovuto trarsene fuori da sola. Questo fu un altro momento importante: non perse tempo a piangere per il proprio destino. Iniziò a badare a sè stessa, si assunse le proprie responsabilità, fece un piano.

I suoi genitori erano ricercatori che lavoravano nella giungla, e quindi conosceva bene quell’ambiente. Ma Juliane non aveva comunque alcun addestramento di sopravvivenza. Non sapeva dove si trovava, né che strada avrebbe dovuto prendere, ma suo padre le aveva sempre detto che, andando verso il fondovalle, avrebbe trovato acqua. Le aveva anche detto che i fiumi conducono in genere alla civiltà. E anche se è vero che una simile strategia può portare pure a una palude, almeno aveva un progetto da seguire, in cui credere. Aveva una meta.

Nel frattempo, gli altri sopravvissuti all’incidente decisero di aspettare i soccorsi, cosa che in ogni caso non è detto sia necessariamente una cattiva idea. Ma aspettare qualcuno che si prende la responsabilità del nostro benessere può essere fatale. […]

Juliane aveva con sé solamente qualche caramella e dei biscotti. Non possedeva alcun equipaggiamento per la sopravvivenza, nessuno strumento, né bussola o mappa, nessuna delle cose indispensabili per sopravvivere. Ma coscientemente delineò un proprio programma. Si mise quindi in cammino, riposando durante le ore più calde del giorno e spostandosi quando era più fresco. Camminò per undici giorni attraverso la giungla più fitta, mangiata viva dalle sanguisughe e da strani insetti tropicali. Questi penetravano nelle sue carni, deponendo le uova che poi schiudendosi producevano vermi e scavavano vere e proprie gallerie sottocutanee. 

Alla fine raggiunse una capanna sulla riva del fiume che aveva seguito sin lì. Barcollando, entrò e si lasciò andare sul pavimento. In una situazione di sopravvivenza c’è sempre una buona dose di casualità, di fortuna e sfortuna. Era stata la buona sorte di Juliane a far sì che tre cacciatori raggiungessero la baracca il giorno successivo e quindi la portassero da un dottore del posto, ma, come afferma Louis Pasteur, “la fortuna favorisce chi ha la mente pronta”.

Forte e determinata, questa ragazzina che aveva perduto le proprie scarpe, per non parlare della madre, il primo giorno, riuscì a salvarsi; gli altri sopravvissuti all’incidente, invece, trascorsero gli stessi undici giorni immobili ad aspettare la morte.

Le forze che li avevano portati fin lì erano oltre il loro controllo. Ma il corso degli eventi, per coloro che si ritrovarono vivi a terra, fu il risultato di profonde e personali reazioni individuali al nuovo ambiente.

Apparentemente è difficile comprendere come mai una diciassettenne non equipaggiata e non addestrata possa sopravvivere a un esperienza simile, mentre una dozzina di adulti in circostanze simili, meglio equipaggiati, abbiano finito per soccombere. Eppure, più studio i misteri della sopravvivenza, più scopro un senso in risultati simili. Accendere un fuoco, costruirsi un riparo, trovare del cibo, fare segnalazioni, navigare… nulla di tutto ciò è servito per la sopravvivenza di Juliane. Anche se non conosciamo cosa avessero deciso gli altri che sopravvissero alla caduta, è possibile che sapessero che, abitualmente, le vittime di un incidente debbano rimanere tranquille ad aspettare di essere salvati. Erano persone che seguivano le regole, e proprio questo ne decretò la morte. […]

Dal canto suo, compiendo delle scelte autonome, Juliane non fu nemmeno particolarmente coraggiosa. La sopravvivenza non ha a che fare con il coraggio o l’eroismo. Gli eroi possono essere coraggiosi e ritrovarsi poi morti… Per definizione, i sopravvissuti devono vivere. Juliane ha avuto costantemente paura, e di qualsiasi cosa, dai piranha quando aveva dovuto guadare l’acqua ai vermi che vagavano sotto la sua pelle, comprese le creature reali o immaginarie della foresta. I sopravvissuti non sono immuni dalla paura. Usano la paura, la trasformano in rabbia e concentrazione.

Per contro, i ricercatori sono sempre stupiti nello scoprire persone che sono morte anche se avevano tutto l’occorrente per sopravvivere. John Leach scrive che “è capitato di recuperare i cadaveri di naufraghi su zattere di salvataggio che non avevano nemmeno aperto il kit  per la sopravvivenza (segnali luminosi, razioni, medicinali di pronto soccorso e così via)”. 

“Alcune persone semplicemente rinunciano”, mi disse Ken Hill, riferendosi ai suoi interventi di soccorso e salvataggio in Nuova Scozia. “Ho studiato questo fenomeno per quindici anni, e non riesco ancora a capirne il motivo”. 

Ciò che salvò Juliane fu una risorsa interna, uno stato mentale. Non aveva alcun equipaggiamento, ma in qualche modo era preparata mentalmente. Una vita intera di esperienza ci forgia per affrontare, o soccombere, a sfide particolari, come un divorzio, la fine di una carriera, una malattia terribile oppure un incidente, un crollo economico, una guerra, un campo di prigionia, la morte di una persona amata, il ritrovarsi da soli e persi nella giungla. Frequentai corsi di sopravvivenza per cercare di capire quel mistero e vedere se potevo veramente forgiare il mio destino. 

copyright (c) by Laurence Gonzales 2004-2017

Questa storia vera, estratta da “Le regole dell’avventura” di Laurence Gonzales, mi spinge, ogni volta che la rileggo, a riflettere su come io stesso affronto la vita e su come ognuno di noi si pone nei confronti degli eventi che la vita gli presenta.

Molto spesso, quando sentiamo il termine “sopravvivenza” o “survival”, ci immaginiamo persi in mezzo alla giungla in qualche paese tropicale oppure in guerra, ma non è così! Questo è probabilmente solo uno stereotipo. Se riflettiamo, ogni giorno viviamo situazioni in cui possiamo decidere se mettere in pratica tecniche di sopravvivenza “mentale” e quindi “salvarci” riuscendo a vivere felicemente, oppure lasciarci andare e sperare che qualcuno arrivi in nostro aiuto, dando poi eventualmente la colpa della nostra infelicità ai soccorsi che non sono arrivati in tempo.

Il periodo di pandemia che stiamo vivendo è un chiaro esempio di situazione di sopravvivenza, in cui la nostra mente viene messa a dura prova: possiamo scegliere se deprimerci e lasciarci “morire” o reagire e “salvarci”!

Credo fermamente, che vivere una simulazione di sopravvivenza ed apprendere tecniche survival possa aiutare a scoprirti capace di fare la differenza nella tua vita, di decidere della tua felicità, di “salvarti” e quindi di passare da individuo in attesa di soccorso a individuo capace di scegliere responsabilmente il meglio per se stesso.